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Un romanzo famigliare - Angela's Ashes di Frank McCourt


" Dietro di me Paddy Clohessy mugugna: - L'animaccia di Euclide...- Tu, sbraita Puntino, come ti chiami? -Clohessy, signor maestro- Ah, il piccolo cammina su una gamba sola. E mi diresti anche il tuo nome di battesimo? -Paddy- Paddy cosa? -Paddy, signor maestro- Bene, Paddy, e cos'è che stavi dicendo a McCourt? -Dicevo che dovremmo metterci in ginocchio e ringraziare Dio di averci mandato Euclide- Sì, figuriamoci, Clohessy. Vedo già la menzogna marcirti fra i denti. Cos'è che vedo, bambini? -La menzogna, signor maestro- E che cosa fa la menzoga, bambini? - Marcisce, signor maestro- Dove, bambini? -Fra i denti di Clohessy, signor maestro- Euclide, bambini, era greco. Che cos'è un greco, Clohessy? -Una specie di forestiero, signor maestro- Clohessy, sei un imbecille. Allora, Brendan, tu saprai sicuramente che cos'è un greco. -Si, signor maestro. Euclide era un greco-"

Limerick, Irlanda. Una città di ossa fradice e abiti umidi, con la sua fervente devozione, i tisici, le pulci, i bambini che non avranno mai un capello bianco e i pochi rifugi dalla pioggia eternamente scrosciante. È qui che ha inizio la storia di Frank McCourt, che con “Le ceneri di Angela” racconta della sua infanzia, della fame, delle cene a base di pane e tè, dei poppatoi pieni di acqua e zucchero perché latte non ce n’era e “o si mangia ‘sta minestra o si salta dalla finestra”.


Quando uscì, nel 1996, fu il caso letterario dell'anno perché l'autore, già ultrasessantenne, era alla sua opera prima e riusciva a scrivere un libro indimenticabile.
Le ceneri di Angela è un romanzo autobiografico che racconta la storia di Frankie, ragazzino irlandese sveglio e sensibile il quale descrive dalla sua angolatura il mondo miserabile che lo circonda e le miserie della sua stessa famiglia, oppressa dai troppi figli, da un padre alcoolizzato ma, soprattutto, dalla povertà estrema.

Una storia di vita vera, che attraverso gli occhi dell’autore bambino si avvinghia al cuore e lentamente lo costringe. Il padre nord-irlandese fuggiasco, scapestrato e alcolizzato. La madre “nata con la testa nell’anno passato e il culo in quello nuovo”. Una nonna arcigna e i fratelli più piccoli che piangono per la fame. Frank ricorda quel padre amato e scriteriato, che ubriaco, fa piangere la mamma e cantare i suoi bambini “un soldino a chi mi promette che morirà per l’Irlanda”. Ricorda le urla strazianti della madre con la pupa stretta tra le braccia. I suoi bellissimi occhietti azzurri ormai spenti, svuotati, vitrei e privi di vita. Ricorda i preti afflitti, che assolvono i peccati di fame senza penitenze, intanto che la morte perde il suo sapore amaro e diviene consuetudine. Neanche il dolore ha più diritto di parola, poiché bisogna sempre tenere a mente le immense sofferenze di Nostro Signore sulla croce.

Il primo aspetto che caratterizza il libro è lo stile utilizzato per raccontare la storia. L'autore, infatti, decide di narrare le vicende come se fosse ancora un bambino e mostrando tutto ciò che avviene secondo questo punto di vista.

Questa scelta stilistica incide fortemente su diversi aspetti. Il lessico (sebbene non sia esattamente quello di un bambino) troverà una sintassi più parlata che scritta, con alcuni termini scelti appositamente per dare l'effetto giusto.

Inoltre, all'interno del testo troverete di frequente affermazioni piuttosto ingenue, inserite a loro volta per fare comprendere come gli eventi non siano affatto raccontati con il senno del poi ma con il modo di pensare e ragionare del Frank bambino.

Moltissime scene che sarebbero state emotivamente più coinvolgenti, vengono smorzate dalle parole scelte per raccontarle, meno consapevoli della gravità di quanto si sta dicendo.

Potrebbe essere il solito racconto patetico, tuttavia "gente che si vanta o si lamenta delle tribolazioni patite nei primi anni di vita se ne trova dappertutto, ma niente regge il confronto con la versione irlandese: la povertà, il padre alcolizzato chiacchierone e buono a nulla; la madre pia e derelitta che geme accanto al fuoco, i preti boriosi, i maestri arroganti, gli inglesi e le cose tremende che ci hanno fatto per ottocento lunghi anni... E poi, tutta quell'umidità."

Frank McCourt ricorda le notti gelate, passate a cercare pezzetti di carbone, coperti solo da vecchi stracci, relitti di un’antica decenza. Ricorda la birra, quei fiumi di liquido scuro e schiumoso che un bambino con i crampi allo stomaco non riesce a capire.

Certo si tratta di una vecchia Irlanda che ora non esiste più, ma sicuramente non si tratta di uno stereotipo bensì della sua identità profonda.

L’autore in un’intervista dice:

“Ripensando alla mia infanzia, mi chiedo come sono riuscito a sopravvivere. Naturalmente è stata un’infanzia infelice, sennò non ci sarebbe gusto. Ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora.”


Tutto ciò che viene narrato e come viene narrato dà l’idea degli occhi del bambini attraverso i quali viene descritto. La birra, per esempio, è raccontata in chiave poeticamente tragica:

Una pozione magica che consente anche agli uomini di piangere quando il cuore sanguina per il dolore, mentre questo, si abbevera dagli occhi di un bimbo, solo e disperato. Una creatura innocente alla ricerca del suo miglior amico di sempre, che non rivedrà mai più “…lui non capisce perché ha appena due anni e non sa le parole, che è la cosa più brutta del mondo”. E poi c’è il Signore, che a volte pretende veramente troppo e le lacrime sembrano non essere mai abbastanza.


Quando si riesce a rendere lo sguardo dei bambini di fronte al mondo, allora il racconto assume toni di autenticità e commozione davvero profondi e Frank McCourt riesce splendidamente in tutto questo.
Un racconto che manda l’anima in frantumi, lo si attraversa in apnea ed ogni parola è come uno spillo conficcato al centro del cuore, eppure procede con una leggerezza ed un’ironia, di cui solo un bambino può essere capace.

L'infanzia trascorre nella stoica resistenza di fronte alle difficoltà. Il disincanto quasi cinico di fronte alla povertà, alla malattia e alla morte procede accanto alla genuina innocenza dei bambini creando una mistura che sfocia, talvolta, in situazioni persino grottesche, in bilico tra la miseria e la spensieratezza, che viene ad essere lo spontaneo antidoto contro la disperazione. Poi arriva l'adolescenza e le problematiche della crescita riducono la spensieratezza. Il padre se ne è andato, la madre Angela invecchia e resta sempre più tempo accanto al fuoco tuttavia, oramai, si è fatta strada la speranza di una soluzione sognata sin da bambino: l'America.

La ricerca dei fiori colorati, di un’altalena per arrivare più in alto, di un amico che ti sorrida, e tanto basta per andare avanti e dimenticare la fame, la tristezza, il freddo, la morte. Neanche le suole delle scarpe sistemate con vecchie ruote di bicicletta fanno ridere più i compagni di classe, perché nonostante i pezzi di gomma spessi che fanno inciampare, a scuola c’è anche chi ci va scalzo. La puzza del gabinetto dell’intero vicolo, non è più così ripugnate, quando c’è chi deve scendere quattro rampe di scale sporche di merda perché i bambini alla tazza non ci arrivano in tempo.


McCourt narra una storia semplice e bellissima, drammatica eppure divertentissima e, soprattutto, comunica col suo libro un senso di umanità genuina e vigorosa che, nonostante la presenza della fame e dell'abbandono, riesce a trasmettere una carica positiva potente ed entusiasticamente vitale.
Leggendo questo libro ci si troverà a pensare che il piccolo McCourt abbia proprio ragione, e che non ha senso vedere la gente nel mondo morire di fame, quando ci sono tanti alberi di mele e tante mucche da latte nei campi.

La ripetitività della prima metà del romanzo ha reso la lettura un po’ lenta ma allo stesso modo rende bene l’idea della famiglia di cui si sente di far parte. Questo aumenta l’idea straziante del dolore del piccolo Frank quando più avanti nel libro, cresce e vede la sua famiglia evolversi, il paragone che voglio, a questo punto, fare è con un romanzo della letteratura italiana, che leggendo queste righe mi è venuto in mente sempre più, parlo di “Menzogna e Sortilegio” di Elsa Morante.

Una vicenda familiare straziante e coinvolgente quasi quanto quella che si legge della famiglia di Frank e Angela.

Menzogna e Sortilegio ci trasporta nella vita familiare della Morante, pubblicato nel 1948, è il primo dei quattro romanzi che hanno scandito il percorso artistico di Elsa Morante. Caratterizzano questo immenso lavoro la sottigliezza dell’indagine psicologica e l’analisi della vita familiare della storia tormentata di una donna, Elisa, che rivive in prima persona il dramma di una vita familiare vissuta tra mille difficoltà ed incertezze. Il centro dell’azione si sofferma sulla madre Anna, che si innamora del ricco cugino Edoardo, il quale però le preferisce una prostituta, Rosaria. Anna consuma allora un infelice matrimonio con Francesco, giovane di modesta condizione, ma animato da grandi ideali. Elisa, frutto di queste nozze, vive un’infanzia difficile, senza l’affetto della madre, i cui pensieri sono sempre rivolti verso l’amato cugino. Dopo tragiche vicende, che vedono la morte di vari personaggi, la protagonista viene accolta nella casa di Rosaria e, di fatto, da lei cresciuta. Fino a quando, dopo la sua morte, decide di raccontare tutta la vicenda.

Menzogna e sortilegio è un romanzo tutto al femminile, perché, in ultima analisi, gli uomini si rivelano dei vinti. Lo è Francesco, lo è Edoardo, entrambi sconfitti da debolezze di carattere e mali incurabili. Mentre, paradossalmente, Rosaria, la prostituta, diviene, quasi suo malgrado, la figura maggiormente positiva e morale. Anche questo è il potere delle donne.
Non voglio dilungarmi sull’analisi di questo romanzo, voglio piuttosto lasciarvi un estratto in modo che, dopo la lettura del romanzo di Frank McCourt, possiate anche voi trovare le analogie con la storia della Morante.

Fu questa, durante undici giorni, l’unica volta che mia madre alluse in qualche modo al nostro comune passato; ma ella mi riserbava un’ultima, straordinaria consolazione. Ciò accadde il dodici d’agosto (era un mercoledí), poco dopo mezzogiorno. Fin dalla sera innanzi, mia madre era rimasta a giacere supina, senza piú la forza di levarsi dal letto; ma se la sua persona estenuata non lottava piú coi suoi deliri, la sua coscienza, ormai sottile come un filo, pareva follemente tremare nel loro assedio incessante.

In simile stato ella durò tutta la notte e parte della mattina: le sue labbra s’agitavano di continuo, in un balbettio febbrile e senza suono; le sue mani annaspavano sul lenzuolo, e le palpebre mezze chiuse lasciavano intravvedere un terribile sguardo innocente, pieno d’ignoranza e di spasimo. Questa fase del suo male somigliava all’agonia di certi gracili insetti alati, che tu guardi dibattersi su un vetro; e ti sforzi di concepire il nesso fra la loro esistenza impercettibile e il loro smisurato dolore; ma al folle paragone la tua ragione manca.

Nessuno fra i violenti spettacoli dati in quei giorni dalla malata era stato altrettanto pietoso quanto il vedere una grande, superba donna ridursi a simiglianza di specie cosí deboli ed esigue. Dovevan esser circa le dieci di mattina quand’ella cadde in un pesante sonno. Per la prima volta in undici giorni i suoi muscoli e le sue fattezze giacquero immobili e distesi e la sua mente parve sgombra da ogni incubo.

Tuttavia, neppure una bambina mia pari poteva illudersi troppo a veder quell’inanimato abbandono, simile a un deliquio piú che ad un riposo. Il respiro della dormiente non era affaticato, ma raro e quasi inavvertibile; il suo volto cinereo non esprimeva che l’assenza. E i suoi capelli diradati e strappati, che nessuno pettinava per non tormentare il suo capo dolente, davano a quella fronte riversa una espressione di rovina e di malinconia; come s’ella giacesse lí uccisa dopo essere stata offesa e percossa.

Questo suo sonno durava ancora quando la sirena della vetreria suonò per gli operai l’uscita di mezzogiorno. Al lungo segnale, la dormiente non si riscosse né ebbe alcun moto, quasi fatta insensibile ad ogni stimolo. Ad assisterla, nella camera, c’era, oltre a me, Rosaria, da poco sopraggiunta; ed entrambe ci tenevamo ferme e tranquille, evitando ogni rumore, per non disturbare il suo riposo.

Ancora per un breve intervallo ella giacque supina e senza movimento; ma non piú di due minuti, forse, eran

trascorsi dallo spegnersi della sirena, quand’io vidi l’amato suo capo sollevarsi poco poco di sul guanciale, poi riposarvici di nuovo dolcemente, senza aprir gli occhi.

I suoi tratti palpitarono, un leggerissimo incarnato le colorò le guance; e inaspettatamente, ella prese a ridere fra sé. Nel tempo stesso, con voce fioca, ma udibile, pronunciò il mio nome.

Io volai verso il letto; e di nuovo ella mosse i labbri a dire: Elisa, Elisa, in un debole riso di malizia e di allegria, come se nominasse il piú comico personaggio che sia dato d’incontrare al mondo. Ciò non era proprio del tutto lusinghiero; ma io non pensavo certo ad offendermi.

Al subitaneo spettacolo di quel volto rifiorito, m’inondò il cuore la speranza, anzi la certezza che mia madre guariva. E stringendole la sinistra inanellata che scintillava sul lenzuolo, mi detti a chiamarla e a richiamarla

in una sfrenata gioia.

Pur seguitando a dormire, mia madre parve accorgersi della mia vicinanza, e riconoscermi: infatti ella rinchiuse nella sua la mia mano, e la premette fugacemente, quasi in segno d’intesa. Nel far ciò, ripeté di nuovo il mio nome: poi dette un sospiro, corrugò la fronte e tacque.

Istantaneamente, il colore si spense sulle sue gote, e sentii la sua mano allentare la stretta, e raffreddarsi: non d’un tratto, bensí con lentezza, quasi insensibilmente.

Ansiosa, ma senza alcun sentimento preciso, io rimanevo al suo capezzale, allorché Rosaria s’appressò in fretta e si chinò a guardarla con un’aria turbata: indi, preso di sul cassettone un piccolo specchio, glielo accostò alla faccia. Non sapendo spiegarmi il perché di un simile gesto vanesio, io dubitosa osservavo Rosaria: la quale, riguardato fissamente lo specchio, lo depose in silenzio sul tavolino da notte. Poi con un’espressione composta e religiosa mi ritolse la mano di mia madre, per incrociargliela, insieme con la destra, sul petto; e in atto di grande solennità si fece il segno della croce.

Il significato dell’intera scena penetrò, allora, nella mia mente tarda. Io presi a battere i denti cosí forte che rovinai, assordata dal loro rumore fantastico; un vento invernale mi aggirò, fui succhiata da una gelida acqua

senza lumi. E l’amata camera materna, accesa dal mezzogiorno d’agosto, fuggí per sempre dai miei sguardi,

come una nave straniera.

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